Il caso di Pasquale Condello attraverso le riflessioni di quello che fu un ergastolano senza scampo
U n mese fa ho raccolto un’accorata testimonianza di Maria Morabito, il suo appello a favore del diritto alla salute di suo marito, il presunto boss della ‘ndrangheta Pasquale Condello, detenuto al 41 bis. Entrato in carcere nel febbraio del 2008, Condello più volte si è definito vittima di abusi. Non sempre è chiaro quanto ciò sia reale e quanto sia frutto di patologie psichiatriche subentrategli in prigione e che la prigione, oltretutto gravata dalle misure estreme del 41 bis, non aiuta assolutamente ad attenuare. “Quando vi è entrato godeva di ottima salute,” dice Maria. È stato per nove anni nel carcere di Parma, dove ha iniziato a sentire scosse elettromagnetiche, qualunque cosa toccasse. Si trovava nell’area riservata del 41bis di Parma. Il 41 più duro.” Un giorno del 2012, lo trovarono in cella incosciente e lo trasferirono immediatamente nell’ospedale di Parma. Una volta rimesso dall’ospedale, iniziò a non mangiare e non bere, perché diceva che gli mettevano cose nel mangiare e pure nell’acqua che lo facevano stare molto male. “Era dimagrito tantissimo, era irriconoscibile”, hanno detto la moglie e i figli dopo avergli fatto visita. Poi è stato trasferito in un centro psichiatrico del carcere di Livorno. È rimasto lì più di un mese, si era ripreso, ma poi è tornato a Parma e ha ricominciato a lamentarsi per le scosse. Non faceva la doccia né si lavava i denti, perché con l’acqua – diceva – soffriva di più. Quattro anni fa è stato trasferito nel carcere di Novara. “Speravamo che le cose sarebbero migliorate… ma abbiamo avuto una dolorosa sorpresa: mio marito diceva cose senza senso, sentiva voci fuori dalla sua stanza, delirava”. Uno psichiatra di Reggio inviato dalla famiglia lo ha visitato per quattro ore, gli ha fatto pure dei test e ha confermato che aveva deliri, era un malato psichiatrico e aveva bisogno di cura. “Quando andiamo a fare il colloquio, lo troviamo con una fascia in testa perché dice che ha dolori”, racconta la moglie. “Non so come hanno fatto in tutti questi anni a trattare così mio marito. Nessuna tortura di nessun genere deve essere fatta a qualunque uomo, chiunque egli sia e qualunque cosa abbia fatto.” Sullo sfondo di questo caso, ci sono le vicende passate che avevano coinvolto da una parte la cosca Imerti-Condello-Fontana, dall’altra il potente clan dei De Stefano. Nelle parole di Maria Morabito, ho colto anche un appello contro la violenza delle faide. “Quella è stata una guerra cruenta piena di vittime innocenti. In ogni guerra di cui si parla non ci saranno mai dei vincitori: siamo tutti vinti; ancora oggi ci sono madri, mogli, figli, che piangono i loro morti.” Attualmente, Pasquale Condello, condannato all’ergastolo, pur non essendosi sentito di percorrere la strada del pentito giudiziario, non vuole avere più – dice la moglie – contatti con il crimine. Alcuni giorni fa, Carmelo Musumeci, un tempo ergastolano senza scampo, ora volontario, dopo la sospensione del suo ergastolo, in una comunità in cui aiuta i disabili, sulla vicenda di Pasquale Condello ha scritto un suo illuminante commento. “L’ho detto e scritto tante volte che è difficile scrollarsi il carcere di dosso e spesso mi capita di leggere notizie che vengono dal mondo carcerario che non mi aiutano proprio. In questi giorni ho letto un’intervista della giornalista Antonella Ricciardi alla moglie, Maria Morabito, dell’ergastolano Pasquale Condello, sottoposto al regime di tortura del 41 bis, che da anni soffre di patologie psichiatriche. Questa intervista mi ha fatto riflettere sul fatto evidente che in carcere tanti ergastolani, vecchi e malati, stanno morendo e quelli entrati giovani stanno invecchiando. Alcune persone pensano che questo sia un deterrente, o un modo per sconfiggere la criminalità organizzata. Personalmente non lo credo, diciamo piuttosto che penso che accada il contrario, perché una società vendicativa nell’applicare la giustizia non potrà che produrre criminali ancora più cattivi. Penso che sia sbagliato cedere parte della nostra umanità per vivere in una società più sicura. Credo anche che non si debba mai rispondere al crimine con una giustizia vendicativa, che porta dritta all’arretramento culturale. E in tutti i casi, se è solo una questione di sicurezza e non di vendetta sociale, credo sia più sicura per la collettività la pena di morte che il regime di tortura del 41-bis. A lungo andare, penso che il regime di tortura del 41-bis e la pena dell’ergastolo abbiano rafforzato la cultura mafiosa, perché hanno generato odio, rancore e devianza anche nei familiari e amici dei detenuti. La pena, lo dice la nostra Costituzione, dovrebbe essere rieducativa, ma è difficile cambiare quando sei murato vivo in una cella e non puoi più toccare le persone che ami, neppure per quell’unica ora al mese di colloquio che ti spetta. Con il passare degli anni, i tuoi stessi familiari cominciano a vedere lo Stato e le istituzioni come nemici da odiare e c’è il rischio che i tuoi stessi figli diventino mafiosi in futuro. Spesso durante le mie testimonianze mi fanno questa domanda: “Ma se qualcuno facesse del male ai tuoi figli che pena daresti?” D’istinto rispondo spesso che li condannerei a diventare buoni, per fargli uscire il senso di colpa per il male che hanno fatto. E poi in maniera provocatoria aggiungo che sarebbe meglio la pena di morte, non la tortura del regime del 41-bis e neppure la pena di morte al rallentatore dell’ergastolo. Forse non riuscirei a perdonare chi facesse del male ai miei figli, ma neppure riuscirei a torturarli nel regime di tortura del 41-bis o a murandoli vivi per il resto dei loro giorni.” [Questo articolo è stato pubblicato sul giornale "il Riformista" (in carta stampata ed on line)]