Intervista ad Antonella Ricciardi sul libro "Palestina una terra troppo promessa |
FRANCHI: "Antonella, quando nascono il tuo interesse e la tua dedizione alla questione palestinese? Cos'è che t'ha più commossa e più coinvolta nella tragedia del conflitto israelo-palestinese? Cosa t'ha più offesa?"
RICCIARDI: "Un interesse particolare per il popolo palestinese è nato in me all'età di 13 anni, nel 1992, in seguito alla lettura di un articolo-intervista, su un giornale ormai vecchio, allora, di quasi un anno (che avevo conservato perchè ero interessata fondamentalmente a numerosi altri servizi in esso contenuti, soprattutto di natura storica). Il servizio cui faccio riferimento riguardava la storia di un giovane palestinese, condannato per terrorismo in Italia in seguito ad un reato avvenuto quando era ancora minorenne: si trattava di Bassam Al Ashker, il quale, all'età di 17 anni, era stato uno dei responsabili del sequestro della nave italiana Achille Lauro, nel 1985. Quello che mi ha colpita è stata la circostanza che fossero vere sia la considerazione che il sequestro della nave fosse stato un atto sbagliato, esecrabile, sia che in questo ragazzo fossero presenti reali elementi di abnegazione per la causa del suo popolo, di eroismo, addirittura, nell'essere stato pronto a morire per amore di altri (Bassam, avevo del resto saputo in seguito, aveva già lasciato una lettera d'addio alla sua famiglia): il progetto originario di quei fedayn (combattenti) palestinesi non era infatti quello di sequestrare dei civili, ma di usare quel transatlantico in quanto mezzo di trasporto per raggiungere un porto israeliano e compiere lì un'azione di guerriglia contro dei paracadutisti israeliani... contro, quindi, un obiettivo militare, e con il rischio molto alto di essere poi uccisi. Sentitisi però scoperti da un cameriere, che sospettavano avesse visto che avessero con loro delle armi, quei palestinesi presero possesso dell'Achille Lauro. |
La scrittrice Antonella Ricciardi |
Ora, tornando più specificamente all'articolo, questo aveva a volte un tono un po' vicino al'ironia, ad esempio definendo Bassam "maldestro terrorista palestinese", dato che questi si era, appunto, sentito scoperto da un lavoratore della nave, e così via; nello stesso tempo il testo dell'articolo, pur essendo stato scritto dal giornalista del caso, Claudio Bernieri di "L'Europeo", in modo interessante, che riusciva ad attirare l'attenzione, (e pur sottolineando giustamente la solitudine prevalente per Bassam, nonostante diverse persone lo avessero aiutato e lui le avesse apprezzate) aveva probabilmente un tono un po' provinciale, riducendo, in modo in qualche modo unilaterale, la questione di Bassam, che aveva da poco ottenuto la libertà vigilata, ad una vicenda soprattutto italiana, nel quadro di un sistema giudiziario, quello del nostro Paese, che l'articolista tendeva a guardare con una certa criticità e diffidenza, considerandolo esplicitamente troppo "lassista" con chi fosse stato condannato; tanto per fare solo un esempio tra i diversi possibili, riporto che era chiaramente ironico il titolo stesso del servizio, che suonava così "Sequestrò l'Achille Lauro? Liberiamolo subito"...
Gianfranco Franchi |
Io credo, invece, che quella storia andasse molto oltre la cornice italiana nella quale in quel momento era stata confinata, e che dallo stesso scritto emergesse, nonostante quella impostazione, la verità su un giovane che, pur avendo sicuramente sbagliato nell'essersi reso responsabile del reato per cui era stato condannato (cosa che Bassam stesso aveva ammesso, pur non essendo divenuto un "pentito giudiziario" nel senso di delatore), era però anche una persona che, nata profuga e in esilio, si era mossa per degli ideali alti... Si trattava, cioè, di un uomo con una propria sensibilità, che scriveva poesie ed era gentile con tutti quelli che incontrasse... insomma, Bassam incarnava, in ogni modo, una realtà da non distruggere, per cui, secondo me, era stato giusto non solo l'averlo condannato, ma anche l'averlo aiutato... Per questi motivi, mi sono chiesta che cosa avesse potuto portare un giovane così a vivere una tale disperazione che lo aveva condotto a rendersi responsabile dell'atto di terrorismo per il quale era stato condannato: questi interrogativi mi avevano, così, spinta ad interessarmi della Palestina, cosa che non si è dimostrata una "curiosità" momentanea, ma è stata, invece, un interesse profondo che è, naturalmente, tuttora vivo in me. Per quanto riguarda, invece, quello che più mi abbia colpita ed offesa riguardo la tragedia che hanno subito i palestinesi, non te ne posso fare in questa sede un quadro esauriente, perchè ci vorrebbe molto più spazio: rispondere dettagliatamente alla tua domanda significherebbe fare una specie di riassunto del libro... per questo, ti esprimo solo due delle tantissime circostanze che mi hanno |
intensamente
toccata in questa vicenda: ho trovato del tutto ingiusto che la Palestina
storica (che comprende l'attuale Israele, la Cisgiordania inclusa Gerusalemme
Est, la Striscia di Gaza ed una piccola parte di Golan, dato che il resto è
siriano), che era abitata a larga maggioranza dai palestinesi, per lo più
musulmani, ma anche cristiani, sia stata non solo brutalmente colonizzata, ma
addirittura trasformata in una colonia di popolamento. Io credo che il
colonialismo di popolamento sia il peggiore di tutti, perchè con esso si cerca
di sostituire una popolazione con un'altra, sfigurando i connotati stessi di un
territorio. Il colonialismo di popolamento è quello che è stato applicato nel
Nord-America ai danni dei pellerossa, in Australia ai danni degli aborigeni
australiani, ecc..., con le differenza, però che, pur senza nulla togliere
all'esecrazione dei crimini contro tali popoli, in questi casi si trattava di
vastissimi territori, in proporzione molto meno popolati della Palestina, che
aveva, invece, un'alta densità di popolazione autoctona, ed era molto più
piccola. Un altro dato di fatto che mi ha profondamente colpita è stata la
prassi israeliana di attuare sproporzionate rappresaglie, che il più delle volte
colpiscono i civili: un esempio recentissimo e particolarmente tragico di ciò si
è avuto tra il dicembre del 2008 ed il gennaio del 2009 quando, avendo diversi
lanci di missili artigianali da parte di Hamas provocato meno di dieci morti
ebrei (poichè diversi dei morti dovuti a tali atti erano stati, per errore,
proprio dei palestinesi residenti in Israele, e non, appunto, degli ebrei),
l'esercito ebraico ha attuato un vero e proprio sterminio contro i palestinesi
della Striscia di Gaza, uccidendone 1342, tra i quali numerosissimi civili
(904), oltre 300 dei quali bambini... Questo orrore mi ricorda quanto
commentò un ministro finlandese a proposito di un'altra sproporzionata
rappresaglia ebraico-israeliana contro un altro popolo prevalentemente arabo,
cioè quello libanese: nell'estate del 2006, infatti, l'esercito israeliano
uccise oltre 1000 libanesi, anche in questo caso soprattutto civili, mentre i
morti in Israele erano stati circa 200 (molti dei quali, anche allora, furono
in realtà non ebrei ma palestinesi, dato che i centri arabi non vengono
forniti dalle autorità israeliane dei rifugi antiaerei). Erkki Tuomioja,
ministro degli esteri finlandese, infatti, aveva fatto la seguente
dichiarazione:"Il vecchio principio occhio per occhio, aggiornato nella versione
venti occhi per occhio, non può servire"... nel caso della Striscia palestinese,
invece, aggiungo io, si è arrivati alla proporzione (sproporzionata) di oltre
100 occhi ad uno..."
FRANCHI: "Genesi e struttura dell'opera: raccontaci quando e come è nata
l'idea; chi senti di ringraziare per sostegno, supporto e condivisione; chi
vorresti leggesse il tuo libro, e perché. Soprattutto: raccontaci come hai
studiato e selezionato le fonti. Abbiamo bisogno di una guida."
RICCIARDI: "L'idea del libro è nata dopo che avevo già dedicato, in quanto
giornalista, diversi e dettagliati articoli alla causa palestinese. Inoltre, ho
studiato questo argomento pure per la mia tesi di Laurea: tale esperienza mi ha
insegnato a curare ancora di più l'indicazione delle fonti, che pure nei pezzi
giornalistici non mancavano, ma che venivano segnalate in maniera meno organica
e dettagliata. Il libro ha proprio la sua struttura portante in tutta una serie
soprattutto di fonti, soprattutto israelo-sioniste, ma anche italiane ed
internazionali, riportate senza distinzioni di colore politico, che documentano
le espulsioni, le discriminazioni e le stragi ai danni dei palestinesi. In
particolare, a proposito delle fonti ebraiche, posso dire che alcune di queste
sono di denuncia di tali crimini, soprattutto nell'ambito di un nuovo filone più
obiettivo di storiografia israeliana, detto "revisionista", ma parecchie di più
sono di natura addirittura rivendicativa nei confronti di tali efferatezze, nel
senso che gli autori di tali misfatti li ammettevano senza giri di parole, in un
certo senso vantandosene. Ti faccio un solo esempio a questo proposito, ma
nell'opera ce ne sono tanti, tanti altri...ecco questa dichiarazione del leader
ebreo David Ben-Gurion, nel maggio 1948, agli ufficiali dello Stato Maggiore:
"Dobbiamo usare il terrore, l'assassinio, l'intimidazione, la confisca delle
terre e l'eliminazione di ogni servizio sociale per liberare la Galilea dalla
sua popolazione araba"(da: Ben-Gurion, A Biography, di Michael Ben-Zohar,
Delacorte, New York 1978). "Palestina-una terra troppo promessa" ha una
determinata "architettura", per una parte importante, anche grazie alle opere di
altri autori che, in precedenza, hanno attuato analisi di spessore sulla
questione: a mia volta, io ho studiato i loro lavori ed ho "interiorizzato" e
"personalizzato" quanto, a mio parere, ci fosse di maggior valore e pregio nei
loro testi, nei loro interventi... Grazie a diversi studi precedenti, quindi, ho
potuto sviluppare meglio questo mio lavoro: di ciò rendo apertamente conto nel
testo, dato che in quella sede cito dettagliatamente le fonti; credo che questa
circostanza faccia sì che il mio stesso libro sia un'opera migliore, perchè la
reperibilità delle fonti, oltre che la loro qualità, è una caratteristica molto
importante per quella che, in senso ampio, è la scientificità di un testo, anche
di natura storica. Nel mio lavoro sono stata, inoltre, incoraggiata da numerose
persone amiche e lettori che si ponevano in maniera amichevole, il che, dal
punto di vista umano e professionale, è stato per me un riconoscimento molto
positivo e significativo. Rispondendoti, invece, su coloro i quali vorrei che
leggessero questo libro, ti dico che considero la sua lettura auspicabile, in
generale, per quelli che credano nella giustizia, che non s'interessino solo del
proprio "tranquillo" orticello, e che non coltivino quei pregiudizi che fanno
chiudere gli occhi e le orecchie anche di fronte all'evidenza di determinati
accadimenti e al loro significato."
FRANCHI: "Nella prefazione, Roch dice: “Oggi nessuno ricorda le responsabilità della Gran Bretagna, nessuno ricorda che nel 1945 i paesi arabi più ricchi erano la Palestina e l'Egitto con riserve per 150 milioni di sterline oro, accumulate grazie ad esportazioni agricole e industriali. Pochi sanno che industrie meccaniche, fonderie, fattorie modello, ospedali (...) erano stati creati anche da emigranti cristiani tedeschi e russi (...) hanno perso tutto anche loro con la fondazione dello Stato d'Israele, senza alcuna forma di indennizzo”. Ti prego di commentare e di glossare questo passo."
RICCIARDI: "Riguardo questo estratto da Gilberto Roch, che, mi fa piacere
ricordarlo, è un autorevole esponente della comunità palestinese in Italia, ed
appartiene alla minoranza cristiana del suo popolo, posso aggiungere che la
società palestinese, nella prima parte del Novecento, era una delle più fiorenti
ed evolute del Mediterraneo meridionale, ospitale verso gli europei e
caratterizzata da densi scambi culturali con le più diverse parti d'Europa: a
Nazareth, ad esempio, esisteva un'importante scuola di lingua e cultura russa, e
così via... Con l'affermarsi dello Stato d'Israele, è diventata prassi,
purtroppo, una politica di espropriazione ed espulsione ai danni dei non ebrei,
arabi e non arabi, palestinesi e non palestinesi che fossero, anche se nella
stessa Europa, spesso, ci sono remore nell'affermarlo. A proposito, invece,
delle responsabilità britanniche, si dovrebbe aprire proprio un capitolo a
parte: ad esempio, Churchill, nel 1921 (un anno dopo la prima rivolta
palestinese), aveva respinto la proposta di un Parlamento palestinese e si era
rifiutato di bloccare l'immigrazione sionista: anche il fatto che il Gran Muftì
(la più alta autorità musulmana della Palestina) avesse, nel 1936, capeggiato il
più lungo sciopero del mondo, 174 giorni, non aveva scosso Churchill. Tra il
1936 ed il 1939 i palestinesi dettero vita a numerosi moti, per l'indipendenza
dall'Inghilterra e contro l'invasione sionista (contro la quale già c’erano
stati scontri di rilievo negli anni '20). Così, dal 1936 al 1939 morirono sotto
il piombo soprattutto dei sionisti, ma anche degli inglesi, circa 11.000
palestinesi, oltre 100 furono condannati a morte, circa 3000 furono
imprigionati. Uno dei motivi del filosionismo della politica inglese va indicato
nella presenza di Herbert Samuel, israelita di visioni sioniste, all'Alto
Commissariato dell'Impero coloniale inglese. Fu a causa di queste già pesanti
responsabilità che l'Inghilterra si astenne dal voto su una possibile
spartizione della Palestina tra gli arabi (all'epoca ampiamente maggioritari,
che la rifiutavano) e gli ebrei (a quel tempo minoranza, favorevoli, appunto,
allo smembramento del territorio palestinese): gli inglesi, infatti, non
volevano rendersi ancora più invisi al mondo arabo..."
FRANCHI: "Nakba, la catastrofe: conflitto del 1948. I sionisti cacciarono via dalle loro case circa 900mila palestinesi, in 530 località diverse, 418 parzialmente o completamente distrutte. Ti prego di raccontarci per bene cosa accadde, come fossimo del tutto estranei alla vicenda. Aiutaci a capire cosa ha significato tutto questo."
RICCIARDI: "La Nakba (in arabo, appunto: catastrofe) del 1948-'49 purtroppo
merita realmente il suo nome per i palestinesi. Per contestualizzarla, bisogna
tenere presente che la vicenda si svolse in un periodo che va dalla spartizione
della Palestina, decisa il 29 novembre 1947 (nonostante tale deliberazione
avesse, per l’ONU, valore solo consultivo e non esecutivo, ed ottenuta con
scandalose pressioni e ricatti americani verso numerosi Paesi), alla
proclamazione dello Stato d'Israele, il 14 maggio 1948, al cessate il fuoco, del
1949. Dopo l'attacco di Paesi arabi vicini contro Israele, si vide, infatti, lo
svolgersi di due guerre in una: il conflitto divenne a tutto campo con l'inizio
di una guerra aperta tra palestinesi ed ebrei, e continuò con l'attacco di
Transgiordania (oggi denominata Giordania), Siria, Egitto, Libano, oltre ad
alcuni contingenti irakeni e sauditi, contro l'appena proclamato Stato
d'Israele. Su tale sfondo, costellato da episodi terroristici attuati da bande
ebraiche soprattutto contro civili palestinesi, i sionisti espulsero dalle
loro case, appunto, circa 900.000 palestinesi, cacciati da 530 località, 418
delle quali furono distrutte, per lo più completamente. I profughi palestinesi
si diressero in parte verso altre parti non occupate della Palestina, in parte
verso nazioni arabe vicine: soprattutto in Transgiordania, Libano, Siria ed
Egitto. A tali esuli e ai loro discendenti, in spregio al diritto
internazionale, viene tuttora impedito il ritorno. Gli eserciti arabi furono
invece sconfitti, con grande stupore dell'opinione pubblica internazionale: in
realtà, le forze armate ebraiche erano superiori a quelle degli Stati arabi
attaccanti, già prima della guerra, a causa del sostegno americano, come ammesso
da tempo anche da storici israeliani. In particolare, si trattava di 60.000
ebrei contro 20.000 arabi. A questo proposito, sono significative le parole del
docente universitario ebreo Yeshayahn Leibowitz (della Hebrew University, già
curatore dell’Encyclopedia Hebraica): "La forza del pugno ebraico deriva
dal guanto d'acciaio americano che lo ricopre e dai dollari che lo
imbottiscono". Le forze armate israeliane, che avrebbero dovuto avere, stando al
piano di spartizione, poco più della metà della Palestina, ne occuparono il 77%,
annettendosi porzioni della costa mediterranea, della Galilea e del deserto del
Neghev, sulle quali la sovranità sarebbe dovuta spettare agli arabi. Agli
eserciti arabi rimasero solo tre porzioni della Palestina: la Striscia di Gaza,
territorio costiero sul Mediterraneo occupato dal vicino Egitto, la
Cisgiordania, territorio ad ovest del fiume Giordano, che fu occupato dalla
Transgiordania di re Abdallah, più una piccolissima sezione di Golan
palestinese: il Golan è, lo accennavo, essenzialmente siriano, ma una piccola
parte, affacciata sul lago di Tiberiade, è palestinese (nel 1967 furono occupate
entrambe). Tornando agli atti terroristici ebraico-sionisti, ricordo qui alcuni
di essi: gruppi terroristici ebraici si evidenziarono gettando bombe contro
mercati arabi e nell'attacco contro soldati inglesi, alcuni dei quali furono
addirittura strangolati con corde di pianoforte. Il 16 settembre 1948, il
mediatore delle Nazioni Unite, lo svedese conte Folke Bernadotte, denunciò le
violenze sioniste contro i palestinesi, ed il giorno seguente egli fu
assassinato dagli israeliani col suo assistente francese, il colonnello Serot; i
loro assassini, Yehoshua Cohen e Nathan Friedman-Yellin, entrarono, in seguito,
nel governo israeliano, senza mai essere puniti. L'episodio più famoso, ed uno
dei più spregevoli, fu però il massacro contro il villaggio palestinese di Deir
Yassin, ad Ovest di Gerusalemme, il 9 aprile 1948: l'Irgun (i cui leaders
politici erano Menahem Begin ed Yitzhak Shamir, futuri primi ministri
israeliani), attaccò il villaggio mentre le persone più giovani e forti erano
assenti, intente al lavoro agricolo dei campi, e lo devastò, uccidendo tutti gli
abitanti che riuscì a rastrellare. Gli abitanti palestinesi uccisi furono 254,
soprattutto donne e bambini; si verificarono anche stupri ed atti di violenza
ancora più raccapriccianti: 25 donne incinte vennero massacrate a pugnalate,
assieme, chiaramente, alle piccole creature che avevano nel grembo... I corpi
dei morti vennero gettati in un pozzo, mentre diversi superstiti furono
trasportati su autocarri scoperti per le vie di Gerusalemme Ovest, in una sorta
di "trionfo", prima di essere scaricati nella parte orientale della città.
Diversi prigionieri, poi, furono uccisi sommariamente. Gli attaccanti ebrei
ebbero invece cinque morti e trenta feriti, mentre lo stesso comandante dello
Shai di Gerusalemme, Levy, dichiarò: “La conquista del villaggio è stata
compiuta con estrema spietatezza”. Il massacro di Deir Yassin giunse
particolarmente inaspettato, dato che nel primo mese di guerra gli abitanti di
questa località avevano avuto relazioni abbastanza buone con i vicini ebrei dei
quartieri occidentali di Gerusalemme. Inoltre, avevano dissuaso i miliziani
arabi dall’attaccare la colonia ebraica di Giv'at Shaul, e si erano rifiutati di
ospitare nuclei di guerriglieri loro connazionali, sperando in una soluzione
pacifica del conflitto. Oltretutto, non è neppure certo che forze armate arabe
si nascondessero nel villaggio. Fondamentalmente, questa ripugnante aggressione
fu utilizzata per spingere la popolazione palestinese a fuggire terrorizzata.
Begin e Shamir, infatti, anche in seguito non disapprovarono l'episodio, ed in
particolare il primo affermò: “Senza Deir Yassin non ci sarebbe stato Israele”.
Un altro grave massacro si verificò contro il villaggio palestinese di Tantura,
vicino ad Haifa: a Tantura i sionisti assassinarono circa 200 persone. Il
massacro più grave di quel periodo contro palestinesi ad opera di sionisti fu
però contro il villaggio palestinese di Dawayama. Se dovessi entrare ancora di
più nei particolari di questo "dossier di sangue" mi dilungherei troppo per
questa occasione, ma desidero aggiungere almeno diversi altri passaggi: la
Cisgiordania comprendeva anche la porzione orientale di Gerusalemme, e secondo
il piano di spartizione, Gerusalemme ed i suoi dintorni sarebbero dovuti essere
internazionalizzati; Gerusalemme ovest, che era andata agli israeliani, aveva
però un 70% di proprietà appartenenti a palestinesi. A questo punto, può essere
interessante chiedersi perchè i palestinesi non proclamarono allora il loro
Stato almeno in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, dato che erano almeno in
mani arabe... A questa domanda si può rispondere che in parte ciò fu dovuto al
fatto che il governo egiziano ma soprattutto quello transgiordano vollero
mantenere il controllo di quei territori coi loro eserciti, ma in parte, anche,
si può dedurre, dal fatto che gli stessi palestinesi in quel periodo non
avessero intenzione di proclamare uno Stato su una parte così ridotta della
Patria: per l'epoca, questo è sicuramente comprensibile. Addirittura, nel 1950,
la Transgiordania di re Abdallah (distintosi per essere stato fin troppo
disponibile a compromessi con i sionisti), procedette all'annessione della
Cisgiordania palestinese: così, dall'unione di Transgiordania e Cisgiordania, il
nome del territorio fu modificato in Giordania. Anche i "fratelli arabi",
quindi, non ebbero la giusta considerazione delle aspirazioni nazionali
palestinesi: mi riferisco, però, a determinati capi di governo, non alle
popolazioni in generale, invece molto solidali. L'annessione non fu riconosciuta
a livello internazionale (tranne che da Pakistan ed Inghilterra: troppo poco per
essere valida), e soprattutto vi si opposero i palestinesi, uno dei quali
proprio per questo, nel 1951, assassinò Abdallah a Gerusalemme (nel 1988, però,
re Hussein di Giordania rinunciò a tutta la Cisgiordania, Gerusalemme compresa,
lasciandola ai palestinesi; all'antica Transgiordania è però rimasto il nome di
Giordania, pur non essendovi più inclusa la Cisgiordania palestinese: di
nazionalità giordana sono normalmente considerato solo i transgiordani, quindi).
Intanto gli israeliani, contravvenendo alle leggi internazionali, impedirono il
ritorno dei profughi palestinesi, tramite la "Legge del proprietario assente",
con la quale chi non fosse stato nella sua proprietà al momento della
proclamazione d'Israele, non poteva rientrare nel Paese, nonostante i
palestinesi avessero con sè i propri documenti. Un altro modo per tenere lontani
i profughi palestinesi fu la falsa notizia di epidemie nei territori da loro
abbandonati, diffusa dai sionisti, come rivelato con l'apertura degli archivi
della C. I. A. di Princeton."
FRANCHI: "Nel capitolo tredicesimo, indaghi la natura della democrazia dello Stato d'Israele. Spiegaci cosa è e cosa non è democratico in Israele, e perché dovremmo tutti essere sensibilizzati all'argomento."
RICCIARDI: "Spesso Israele è stato definito quale Paese democratico, libero. Per prima cosa bisogna vedere cosa s'intenda per democrazia. Spesso, purtroppo, si definisce democrazia il semplice arbitrio della maggioranza, o poco più. Naturalmente questo concetto di democrazia è inaccettabile. Se si applicasse, infatti, ad una maggioranza di degenerati, ad esempio, si potrebbero far passare norme a favore della pedofilia. Di solito, però, le cose non sono così chiare a molti. Spesso si assiste piuttosto all'azione di Stati che, pur avendo Costituzioni ed altri strumenti volti a non sconfinare nel semplice arbitrio, che diventa poi dittatura della maggioranza, invece sono democratici solo con quelli che considerano gli "eletti". Questo ricorda il caso degli Stati Uniti d'America, che hanno spesso attuato un regime pseudo-democratico, cioè di democraticità formale, svuotata e non sostanziale, dato che cercano di imporsi, in nome della democrazia, in modo tutt'altro che democratico. Oltretutto, non hanno l'autorità morale per farlo, avendo un passato ed un presente non esemplari: hanno, ad esempio, causato tre milioni di morti al Vietnam, tanto per citare solo uno dei tantissimi casi possibili. A mio avviso, devono essere i popoli stessi a cambiare certe situazioni, solo se davvero lo vogliono, cosa non impossibile, ricordando il caso degli afghani, aiutati solo indirettamente da altri Stati contro i sovietici. Tornando al discorso d'Israele, c'è da ricordare che non ha una Costituzione. La democrazia non può ridursi a meccanismo elettorale. Israele non può essere definito democrazia, perchè non si può essere democratici solo con una parte degli abitanti. Ad esempio un autore critico nei confronti dello Stato ebraico, Fabio Beltrame, asserisce: “Israele è uno Stato democratico, anzi è l'unico Stato effettivamente democratico della regione. Lo è però solo ed esclusivamente per i cittadini ebrei”. Anche se i palestinesi dentro Israele hanno formalmente diritto di voto, sono cittadini di serie B, ma non è certo questo l'unico problema. Il diritto di voto, per quanto importante, non è assolutamente l'unica cosa. Quando si legalizzano gli assassinii e la tortura, entrambe cose avvenute in Israele, non ci si può legittimamente definire democratici, perchè il diritto alla vita ed alla sicurezza vengono ancora prima del diritto di voto. Da morti non si vota. La democrazia non deve essere puro arbitrio della maggioranza: in quel caso lì l'aperta dittatura ha almeno il vantaggio di non essere ipocrita e di non rendere tanti suoi cittadini corresponsabili dei suoi crimini. Per quanto sia nella natura delle cose umane il non potere raggiungere la perfezione assoluta, e ci possano essere diversi gradi di democraticità, sicuramente quando vengono elevati a sistema tortura e omicidi di esponenti politici avversari, il limite è stato passato, e non si può più parlare di democrazia. Inoltre, se si applicasse una vera democrazia, permettendo il ritorno dei profughi palestinesi dalle terre dalle quali furono cacciati (in gran parte, oggi comprese in Israele), la maggioranza ebraica (costruita, è evidente, con la pulizia etnica) verrebbe meno da subito, per cui, democraticamente e non con una guerra, gli abitanti di quel Paese potrebbero chiamarlo Palestina, nome col quale, geograficamente e storicamente, è tuttora possibile definire quelle contrade di questo territorio, che una politica colonialista ed imperialista ha invece diviso."
FRANCHI: "Sei giornalista. Ti domando: cosa va e cosa non va nell'informazione sulla questione palestinese, nella carta stampata e nell'informazione radiotelevisiva? Ti sembra che l'informazione sia condizionata da interessi partitici, economici o da pregiudizi ideologici? Racconta."
RICCIARDI: "Della Palestina si parla molto sui media, ma spesso in modo molto
carente quanto a informazioni essenziali. Sicuramente i condizionamenti di cui
accenni esistono. Del resto, l'Italia è stata classificata, in più occasioni, a
livello internazionale, un Paese solo "semi-libero" a livello informativo:
questo nonostante tanta parte dell'informazione di Stato se la suoni e se la
canti da sola, autocelebrandosi come se fosse tra le migliori. Non di rado,
inoltre, i giornali particolarmente indipendenti ed anticonformisti non vengono
inseriti nelle rassegne stampa televisive, pur avendo all'attivo, a volte, un
numero di copie vendute maggiore di altri invece lì presenti. In particolare,
quando si parla della Palestina sui mass media s'ignorano, di solito, una serie
di dati fondamentali che chiariscono le regioni di questo conflitto... te ne
elenco alcuni esempi, dato che, naturalmente, una profonda disamina degli
avvenimenti, prossimi e meno recenti, metterebbe inevitabilmente in luce
l'illegittimità storica dell'occupazione della Palestina. Un argomento spesso
usato per tale (voluta) rimozione è dato dalla considerazione che furono gli
arabi a rifiutare la spartizione della Palestina, sancita dall'O.N.U. nel 1947 e
realizzatasi nel 1948, con la creazione dello Stato d'Israele. Si affermava
spesso, inoltre, che i palestinesi fossero sempre stati una parte indistinta del
mondo arabo, senza sentire l'esigenza di un proprio Stato, salvo poi avvertirla
per puro spirito di contrapposizione ai coloni ebrei sionisti. Queste obiezioni
tuttavia ignorano che la Palestina avesse già una sua identità geopolitica al
tempo dell'Impero Ottomano, mentre altre identità erano ancora in formazione: ad
esempio il Libano era diviso in varie regioni a sè stanti, tra cui il Monte
Libano, la zona a maggioranza drusa dello Chouf, ecc.... Inoltre, seguendo una
filosofia affermativa, non rinunciataria, sono convinta che sia da evidenziare
la giustezza del sostegno al principio dell'autodeterminazione dei popoli, in
modo tale che ogni popolazione possa liberamente scegliere, senza subire
imposizioni colonialistiche, se considerarsi parte integrante di una comunità
nazionale più vasta e composita, o se decidere di essere una nazionalità
indipendente, a sè stante. Particolare attenzione, non a caso, non viene
riservata alla constatazione che gli ebrei originari della Palestina fossero
solo il 10% della popolazione in epoca ottomana, saliti poi al 30% per
l'immigrazione sionista, spesso illegale, all'epoca della spartizione della
Palestina, che risulta chiaro, a questo punto, essere stata un crimine, ottenuta
inoltre con scandalose pressioni americane, favorite da interessi economici e
dall'aberrazione "cristiano-sionista" (secondo molti, in realtà di tipo
anticristiano): si tratta, cioè, di una lettura a mio parere distorta delle
Scritture, che porta a leggerle più alla luce del Vecchio che del Nuovo
Testamento, considerando ancora validi principi, invece, confutati dai Vangeli,
quali quelli della vendetta spietata e sproporzionata, di un popolo eletto
superiore agli altri ed altri simili. Inoltre, a volte si ricorda che i coloni
ebrei, al momento della fondazione d'Israele, avevano comprato delle terre in
Palestina...non chiarendo però che le avevano sì comprate, ma che queste erano
solo il 6% del totale, il che vuol dire il 94% era in mano palestinese...a parte
il fatto che un principio basilare del diritto fa sì che avere la proprietà su
un territorio non voglia dire il potervi avere anche una sovranità statuale, il
diritto di legiferarvi...Di fondamentale importanza, per comprendere nel
profondo la questione, sono anche i dati, non sempre ben evidenziati, relativi
alla circostanza che i dirigenti sionisti fondino la propria identità nazionale
solo sulla religione, non accordando la possibilità di emigrare in Israele a
persone di origine ebraica ma di religione diversa da quella israelitica...
quegli stessi dirigenti israeliani che avrebbero voluto includere nel loro
Stato, oltre all'intera Palestina storica, anche porzioni di Libano, attuale
Giordania, Iraq, Siria, ed Egitto, per aumentare le proprie disponibilità
idriche: intenzione evidente anche nelle bande della bandiera israeliana, che
indicano i confini "relitti" che sarebbero dovuti essere d'Israele: dal Nilo
all'Eufrate... Palese appare, inoltre, che le classi dirigenti di Tel Aviv,
senza distinzioni di destra e di sinistra, abbiano cercato di ottenere il
maggior numero di terre possibile col minor numero di arabi possibile: per
questo avevano colonizzato e non annesso Cisgiordania e Striscia di Gaza, per
questo avevano annesso Gerusalemme Est ed il Golan, nonostante annessioni e
colonizzazioni siano illegali. In ogni modo, lavori validi sulla Palestina ce ne
sono, ma difficilmente, non a caso, riescono ad emergere molto per il grande
pubblico."
FRANCHI: "Come sogni e come immagini il futuro del popolo palestinese?Quali sono le tue sensazioni in proposito? Cosa manca per ristabilire giustizia e libertà? Cosa, infine, possiamo fare per loro?"
RICCIARDI: "Per ristabilire una situazione di giustizia in Palestina sarebbe
necessario un sistema di relazioni molto più bilanciato a livello
internazionale: storicamente, tale equilibrio è mancato in maniera gravissima,
mentre la giustizia stessa è equilibrio. Le "mediazioni" tra le due parti,
quella israeliana e quella palestinese, sono avvenute avendo, quale maggiore e
determinante "arbitro", il governo statunitense, fin dalle origini sbilanciato a
favore di Israele, sia per le fondamentali influenze politico-finanziarie della
potentissima comunità ebraica degli U.S.A., che per effetto di una mentalità
imbevuta dall'aberrazione "cristiano-sionista". Il governo di Washington ha così
bloccato la esecutività di tutte le numerosissime condanne dell'O.N.U. contro il
governo di Tel Aviv. A questo punto s'impone anche una riflessione sulla
parziale inadeguatezza della stessa O.N.U., nella quale non vige una piena
democrazia, dato che pochissimi Paesi, membri del Consiglio di Sicurezza di
questo organismo a carattere planetario, possono bloccare gli effetti concreti
delle varie risoluzioni decise, invece, a maggioranza reale. Ora, il nuovo
presidente americano Barack Obama ha dato alcuni segnali di discontinuità, in
senso positivo, rispetto alla politica di George W. Bush: Obama, già quando era
un senatore dell'Illinois, era stato uno dei pochi (attenzione: pochi pure tra i
democratici) parlamentari statunitensi a votare contro l'aggressione all'Iraq
del 2003, adesso è favore del dialogo con Cuba, con l'Iran, ha fatto chiudere
quella vergogna che era il carcere di Guantànamo, ecc... Tuttavia, il punto dove
è più difficile che lo stesso Obama abbia una politica che perlomeno si avvicini
alla giustizia riguarda proprio la Palestina, in quanto il mettersi contro
determinate lobbies può costare parecchio a qualunque presidente U.S.A.. Il
margine di libertà dei presidenti americani non è totalmente illimitato e forse,
a volte, essi stessi non possono agire completamente secondo le proprie
convinzioni. Credo, tra l'altro, che sia molto interessante il caso dell'ex
presidente americano Jimmy Carter, il quale, ormai non più a capo del governo a
stelle e strisce da molti anni, ha voluto incontrare i leader del movimento
palestinese Hamas, ha definito criminale l'embargo contro la Striscia di Gaza,
ed ha accusato Israele di attuare un sistema di apartheid contro i palestinesi.
Tutto ciò, io penso, fa onore a Jimmy Carter, ma ho i miei dubbi che questi
avrebbe potuto esprimersi così quando il presidente degli Stati Uniti d'America
era lui stesso. Venendo a quello che sarebbe auspicabile per la Palestina, per
ragioni di spazio mi limito ad indicare solo uno dei programmi la cui
realizzazione è auspicabile: il rientro dei milioni di profughi costretti a
vivere accampati, nella speranza di poter tornare nelle loro terre. Uno Stato
palestinese in Cisgiordania e Striscia di Gaza, anche se sarebbe solo una
piccola porzione della giustizia che sarebbe necessaria, dato che questi
territori costituiscono solo il 23% della Palestina storica (di tale 22%, però,
i palestinesi controllano pienamente solo circa il 20%) sarebbe, in ogni modo,
meglio del nulla assoluto, dato che uno Stato è, comunque, un punto di forza per
un popolo, che altrimenti è molto più esposto ai pericoli che comporta il vivere
senza questa sorta di "rete di protezione". Tuttavia, la presenza delle colonie
abusive ebraico-sioniste in Cisgiordania e l'intensa crescita demografica dei
palestinesi nei territori del possibile, futuro piccolo Stato palestinese ed in
Israele (secondo diversi studi, i palestinesi compresi all'interno dello Stato
d'Israele potrebbero infatti superare gli ebrei tra meno di un secolo, anche
senza considerare un ritorno dei profughi arabi originari di quelle terre)
potrebbero minare alla radice l'idea dei "due popoli due Stati". A questo punto,
un'idea migliore può darsi che sia quella di un unico Stato nei territori della
Palestina storica, nel quale cristiani, ebrei e musulmani possano convivere
pacificamente...su un piano, però, di parità: quindi senza discriminazioni. A
proposito, invece, di quello che si possa fare dall'Italia a favore del popolo
palestinese, credo che, in particolare, sia una onesta e limpida, trasparente
informazione sull'argomento, che progetti di volontariato e cooperazione possano
essere forieri di molti buoni frutti. Per chi è attento alla politica, inoltre,
secondo me sarebbe da tenere in conto il valorizzare quei gruppi che hanno una
posizione più equa sulla Palestina, e di provare a sensibilizzare verso questa
prospettiva quelli che invece non l'hanno, almeno in maggioranza, nel giusto
conto. Guarda, non faccio un discorso di sinistra o di destra (o meglio, sulle
varie sinistre e destre): quella del popolo palestinese è una questione umana e
di giustizia, per cui io, a questo proposito, rivolgo questo questo mio appello
erga omnes, cioè verso tutti...tutti, almeno, coloro i quali non siano
totalmente prevenuti sul tema."
FRANCHI: "Progetti futuri? Cosa possiamo attenderci da Antonella Ricciardi?"
RICCIARDI: "Per il momento, continuerò a svolgere la mia attività di
giornalista, cercando, compatibilmente con possibilità editoriali e di tempo, di
dare maggior luce a notizie ed argomenti che lo meritino, e di seguire i miei
interessi, nei quali la Palestina continua ad avere un posto importante, ma che
vanno anche molto oltre questa. Per ora, quindi, non ho in programma eventuali
altri libri, dato che ho intenzione di dedicarmi a curare soprattutto questo che
è uscito, poichè, a dire il vero, ho avuto pochissimo tempo finora da spendere a
questo fine, essendomi da pochissimo abilitata all'insegnamento con la Ssis
(Scuola di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario) per le materie della
mia classe di concorso: la filosofia e la storia, cui si dovrebbe potere
aggiungere anche l’educazione civica. Si è trattato, in effetti, di un percorso
molto pesante, durato circa un anno e mezzo, ma che, alla fine, mi ha portata
alla soddisfazione molto bella di averlo terminato con pieno successo. Adesso,
quindi, sono libera di disporre di un tempo molto maggiore per me, che cercherò
di vivere nel modo più fruttuoso possibile, anche per quanto riguarda il mio
ruolo di giornalista e saggista, naturalmente...."
9-12 maggio 2009
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Antonella Ricciardi (Santa Maria Capua Vetere, 1979), laureata in Filosofia, giornalista. Questo è il suo primo libro.
Antonella Ricciardi, “Palestina. Una terra troppo promessa”, Controcorrente, Napoli, aprile 2008. Prefazione di Gilberto Roch.
[Questo articolo-intervista, realizzato in prima istanza per il sito Lankelot, è stato pubblicato sui seguenti giornali: Dea Notizie (nella versione on line), Caserta24ore, Corriere di Aversa e Giugliano, Il Mezzogiorno di Napoli e Caserta, Italia Sociale, Qui Calabria, Ciaoeuropa e Rinascita (nella versione on line e locale "Rinascita Campania), Ordine Futuro]